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scritture dell'imprevisto
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prima | numero 2 | drop 4
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Claudio Parentela, Painting2760 (2022) tecnica mista su cartoncino, dimensioni 21x30cm
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Primo amore
A Pier Paolo (trattenendo la vergogna)
di Marco De Angelis*
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Quante volte a pensarti mi ritrovo
perso, e quanto stringe ancora
l’emozione, o infelice poeta della passione
che del mondo la radiosa luce corporale
facevi la tua sponsale unica ragione
di vita, la tua ferale festa.
Scusa l’intrusione brutale
non richiesta, l’urgenza tanta
di scriverti la presunzione,
è che oggi dovevo andare
al mare, a Santa Ninfa, a trovare
quel pittoretto sai de la Maranella
e suo fratello messer Accattone
che come due bravi sposini
nello stesso letto addormentati
una mano pietosa a egual sogno
già da tempo dispone.
Ma poi un temporale m’ha fermato
e sulla strada a mia consolazione
ho pensato al sogno caro di Ninetto,
a quando fuggire con lui volevi
(scusami pure il tu diretto)
dentro il sangue vero di un umano
sogno di Marocco.
E penso a cosa ne sarebbe stato
del tuo ingegno, di te, qui sopravvissuto
centenario allo scempio delle speci
negli anni atroci di questa morte
prolungata, ignominiosa, post-umana.
Cosa avresti patito, tu, veggente
per suprema qualità di giusto, tu abituato
alla vecchia pula d’ignoranza ricca
e violenta ipocrisia o viltà, a morire
oggi, gli occhi vuoti d’asfissia, del nuovo
assoluto Male che di niente nutrendosi
al niente ci sfigura.
Sì, tu sapevi già tutto,
ma non si arriva a immaginare la totalità
del lutto che copre ora il mondo
intero come un nero sole senza distinzione
sterminando le cose di bellezza, gli atti,
le persone, estirpando una a una
le diversità se non quelle di parata
falsamente acconciate nelle pubblicità, |
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trucidate in vitro dalle televisioni, dai giornali
consumate, dai network sociali,
(lo vedi, non mi vergogno) diffusori collettivi
del quotidiano male sussidiario.
Ah, le masse, le sciagurate masse
informi, come infine si sono arrese
infami al volere proprio più profondo:
non più epos popolare o Terzo Mondo
ma sopravvivenza cieca che ha scelto
sé stessa di annientare per servire
inverecondo un più comodo padrone.
No, non sono gli unici felici, i soli,
come tu dicevi, possessori del sole.
Mortuarie ali tecnologiche son spuntate
sulle loro coscienze non più perdute, non più sole,
ma per questo allora salve nel non essere coscienti.
Ora anche la luce ha doni differenti,
e certo non assisterà con noi alla deliquescenza
numinosa delle strade, al lucore della polvere
e dei mattoni, alle stasi, alle fami
randagie, alle liturgiche costellazioni
dei volti quasi fantasmi affioranti
da un lavacro millenario: estinto.
E la morte persino, che della luce era
il perfetto calco rovesciato, diversa
anch’essa si mostra, non più maschera
di rena che invisibile, acquattata
dietro ogni cosa, il destino seguiva
lento di ogni tuo amabile malandro,
ma profana, deprimente sterile cosa.
Eccoli allora i Citti finalmente
sono arrivato e dalla terra arsa un fiore
strappo superstite che in chiuso vaso
marocchino insieme al tuo unirò,
ricordando una primavera a Casarsa
quando chino sotto l’alberello del sonno
tuo guardiano, ne raccolsi uno rosso
lasciando in pegno una lacrima soltanto
il cui disegno negli anni germogliando
ancora oggi mi brucia addosso. |
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* Marco De Angelis è nato a Roma nel 1970. Dopo aver interrotto gli studi in Medicina, si avvicina al cinema seguendo uno stage tenuto dal regista Silvano Agosti. Autore di alcuni cortometraggi trasmessi da Rai 3, ha realizzato, insieme ad Antonio di Trapani, opere di lungometraggio (Tarda Estate, Terra, White Flowers, Little Boy, Little Boy) proiettate in varie rassegne e festival internazionali, tra cui la Mostra del Cinema di Venezia. Una sua sceneggiatura è apparsa in un cofanetto edito da DeriveApprodi. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo, Il canto del lamantino (ed. Il Seme Bianco). Da numerosi anni lavora in una cooperativa sociale occupandosi di persone con disabilità e in particolare di ragazzi con disturbi dello spettro autistico.
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Perché, tesoro mio?
La traduzione non imita, né rimedia: semplicemente (è) opera. Del tradurre e del suo rapporto con innumerevoli “prima”.
di Emanuela Nanni
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Ci sono oggetti letterari, sociali, o semplicemente ‘umani’ che eludono ogni forma di teorizzazione incontrastata e orientativa. La traduzione è uno di questi oggetti-soggetti che subiscono attenzioni inaspettate, così come le stigmatizzazioni più secolari o i più facili entusiasmi.
Non mancano definizioni normative o idealizzanti della traduzione. Tutte, in ogni caso, sono sottoposte al vaglio del tempo e delle cristallizzazioni stereotipate, oltre che soggette a posizioni critiche fluttuanti. Un secolo predilige l’approccio straniante, dépaysant della traduzione che promuove il preservare la patina di “estraneità” di una voce narrante, inscenando un’indulgente ospitalità nella propria, a volte toccando l’eccesso. Il secolo successivo opta per un’accurata elusione dei forestierismi o delle opacità, pur di servire una logica che rasenta la domesticazione o ‘naturalizzazione’ indiscriminata dell’Altro, politica che si applica anche sugli stranieri che arrivano in un paese. Non è questa però la sede in cui dibattere se sia più giusto sconvolgere la lingua che traduce pur di consegnarle intatto il compito di traghettarci l’Altro, o se si debba, invece, far di tutto affinché il testo tradotto suoni come un testo scritto direttamente nella lingua-cultura in cui si sta inserendo. È invece questo il luogo che scelgo per mettere in relazione l’essenza e il meccanismo della traduzione con l’universo di senso che si sprigiona pronunciando il semplice avverbio “prima”, indicazione di tempo che di semplice, in realtà, non ha nulla...
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