La newsletter per chi ha sete di comunicare |
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Ciao ,
in questo ultimo mese, tra una Spuma e l’altra, siamo entrambe parecchio indaffarate con i nostri rispettivi lavori, e non ci lamentiamo per questo. Evviva, evviva: un bel segnale, finalmente. Abbiamo nuovi brand da conoscere, e che ci stanno affidando la comunicazione per farli risuonare.
Come neo freelance dobbiamo solo trovare la quadra della gestione quotidiana dei progetti, le scadenze da conciliare con i nostri ritmi, la vita privata e le amicizie.
Siamo anche state attanagliate da mal di testa potenti, tanto che Silvia ha vinto un bite ortodontico dal dentista ed Elisa qualche visita specialistica.
Ma ora veniamo al dunque di questa Spuma, perché un’altra cosa ci ha accomunate: la visione di un film di Netflix che non è per nulla nelle nostre corde.
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Amiamo i true crime, le serie tv drammatiche - ci piace anche ridere però, mica solo soffrire e spaventarci - ma mai avremmo immaginato di vedere questo titolo: “Love in the Villa - Innamorarsi a Verona”.
Come si intuisce, è una commedia romantica eterocis molto stucchevole. Un po' una porcheria insomma.
Perché l’abbiamo vista e ne parliamo in questo numero, ?
Ora ti spiega tutto Silvia.
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Da qualche anno abito in provincia di Verona, a San Bonifacio per la precisione, paesotto che non brilla per lo splendore architettonico ma è “dotato di molti servizi e ben collegato”, come si leggerebbe in un annuncio immobiliare. Nella provincia veronese da ormai più di sei anni, e da venti(!) in Veneto, penso di conoscere abbastanza bene il territorio. E così è per Elisa, anche lei lombarda di nascita e veneta di adozione da anni.
Avevo intercettato su Facebook alcuni commenti al suddetto film, per la maggior parte di persone veronesi o venete che si discostavano dalla narrazione della pellicola e da alcune scelte narrative. Così mi sono incuriosita e ho voluto “vedere per credere”.
Tralasciando la trama, su cui non c’è nemmeno bisogno di spendere parole, vorrei focalizzare l’attenzione su una cosa soltanto: gli stereotipi presenti nella pellicola.
Il film, infatti, non è piaciuto per nulla alle persone che abitano a Verona perché non restituisce un’immagine veritiera della città. E aggiungo, nemmeno dell’Italia. Accade questo quando ci si affida ai cliché.
E se in questo caso non è un fatto grave, anche perché il film è comunque un super spottone a Verona e quindi la città ne beneficerà a livello turistico, quanto grave può essere, invece, quando ci si affida a cliché e stereotipi per tematiche ben più serie?
La narrazione non rispecchia Verona perché chi ha scritto il film non conosce e non vive la città e il suo territorio. Lo sceneggiatore è il regista stesso: lo statunitense Mark Steven Johnson.
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Ecco perché è importante coinvolgere le persone direttamente interessate e chiamate in causa a scrivere e parlare di sé stesse.
Ecco perché è importante la rappresentazione. Quanto sarebbe stato diverso il risultato se avessero contribuito alla scrittura e alla sceneggiatura persone che abitano e vivono a Verona, conoscendo pregi e difetti e contraddizioni della città e della provincia, invece che relegarle a semplici comparse?
Mi spiego: se si gira un film sulla storia di persone transgender, è necessario renderle protagoniste, nel cast e nella sceneggiatura. A tal proposito, segnalo: la stupenda serie tv “Pose”, con il cast di persone Lgbtqia+ più numeroso della storia, e il documentario “Disclosure”, che affronta per voce di attor* della comunità trans le discriminazioni e le rappresentazioni, cariche di transfobia e di stereotipi, presenti nelle pellicole di Hollywood.
E così dovrebbe accadere per tutte le persone che appartengono a categorie marginalizzate e sottorappresentate. Solo in questo modo il risultato è autentico e non offensivo. Altrimenti si rischia (parlando per altre persone) di affrontare terreni ignoti e scivolosi che non fanno per nulla bene alla categoria marginalizzata. E poi, perché arrogarsi il diritto di parlare per persone di cui non si conoscono storia e vissuto? Passiamo il microfono, la penna, qualsiasi cosa a chi ha diritto di rappresentazione e di scrivere la propria storia, con la propria voce.
Voglio condividere qui - perché calza a pennello - il video del Ted Talk di qualche anno fa di Chimamanda Ngozi Adichie che racconta “il pericolo di un’unica storia”. La scrittrice nigeriana parla dei rischi che si corrono quando si affida la narrazione agli stereotipi in cui ciascun* di noi cade. Lei fa l’esempio dell’Africa e, se non conosci questo suo intervento, ti consiglio di ascoltarla. Guardando questo video ho riconosciuto i miei pregiudizi inconsci su un continente così vasto che, con un occhio esterno e occidentale, si tende a ridurre e ad appiattire.
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Tornando al caso di Verona, sottolineo che non è così grave quanto accaduto ma, per forza di cose, non è piaciuto alle persone veronesi perché non si sono riconosciute e non hanno riconosciuto la loro città. Quella non era Verona, ma l’immagine un po' grottesca e stereotipata che Hollywood ha dell’Italia.
Vediamo il perché:
- la colonna sonora è un mix di brani come “Tu vuo’ fa' l’americano”, “Funiculì, funiculà” e altre canzoni italiane d’antan per nulla contemporanee né veronesi;
- “Ciao bella” è il saluto onnipresente se ci si rivolge a una donna (sigh!);
- Verona nel film è una città colonizzata da gatti, che abbondano anche nel cortile della casa di Giulietta. Per esperienza, purtroppo, penso di non avere mai visto un felino in centro città;
- in tutto il film c’è una sola persona, a memoria, che parla con un accento veneto veronese, altrimenti quello che prevale è l’accento del Sud, anche nel carcere(!);
- pure i cognomi italiani citati sono tutti tipici del Sud Italia. Nessun Tessari, Adami, Sartori, Avesani ma ci sono i D’Angelo e i Caruso;
- e poi, possono mancare i cliché dell’italiano con l’amante, la “proverbiale” lentezza (come se fosse una caratteristica negativa) e l’inefficienza italiana?;
- tra i personaggi c’è un tassista (abusivo, forse), strambo, che sfreccia come un fulmine con la sua Fiat 500 su qualsiasi tipo di strada;
- i dolci tipici sono i cantucci e i cannoli, non proprio appartenenti alla cultura gastronomica scaligera;
- la più importante manifestazione italiana dedicata al vino, che ha sede a Verona, e ha una certa importanza nella storia del film, ovviamente è collocata in pieno centro e non, dove realmente è, nei grigi padiglioni di una fiera. Vabbè, questo lo concedo, solo come licenza poetica.
E potrei andare avanti ancora con questo elenco, ma mi fermo per non annoiarti.
Due ore buttate e sprecate nella visione di questa pellicola, che di certo non ci ha fatto spremere le meningi (e ci sta, per carità), già messe a dura prova per i mal di testa martellanti.
E tu, , noti mai quanto i film o le serie tv possano essere fucina di stereotipi e cliché? Quanto ti dà fastidio? A me parecchio. Scrivici per condividere i tuoi: non vediamo l’ora di leggerli!
A cura di Silvia
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Oggi è la giornata internazionale per il contrasto alla violenza di genere e mi sento di consigliare spassionatamente una serie tv su Netflix (che per fortuna ha ancora titoli di qualità).
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Maid, questo il titolo, tratta la violenza di genere meno visibile ma altrettanto grave e pericolosa, che scava dentro, si insinua e agisce giorno dopo giorno: la violenza psicologica.
Le campagne pubblicitarie di brand, e non solo, oggi saranno tutte focalizzate su ferite, lividi e volti tumefatti. Questo è il lato visibile della violenza di genere, ma è solo la punta dell’iceberg. Violenza sessuale, economica, psicologica, stalking, molestie e catcalling sono altre facce sommerse della stessa, bruttissima, medaglia machista.
Maid talvolta è come un pugno nello stomaco: racconta la vita di Alex, una giovane mamma che, per poter essere indipendente dal compagno abusante, lavora facendo le pulizie. Con la protagonista si crea un legame fortissimo, quasi empatico, che ci spinge a fare il tifo per lei. Si rialza, sempre, anche quando tutto gira al contrario, senza retorica e stereotipi. Negli episodi si affrontano anche i temi della salute mentale, dei soldi e del pericolo della dipendenza economica da un uomo, anche quando non pare avere secondi fini. Un ruolo centrale e salvifico non può che giungere dalle reti femminili.
A cura di Silvia
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Deborah Feldman - Ex Ortodossa Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche - Ed. Abendstern
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Per legarmi a quanto scritto da Silvia, riguardo a questa importante giornata e alla serie tv “Maid”, ho pensato di consigliarti questo libro che ho trovato sconvolgente e travolgente al tempo stesso.
Porta alla luce il ruolo della donna in una delle comunità ebraiche ultraortodosse più severe. "Ex Ortodossa" è il racconto autobiografico di Deborah Feldman, cresciuta da Zeidy (nonno) e Bubby (nonna), i nonni paterni, nella comunità chassidica Satmar di Williamsburg a New York.
Gli ebrei chassidici parlano solo yiddish e vestono abiti tradizionali; alle donne non è permesso cantare, se non in famiglia, e non possono leggere libri, a meno che non siano di preghiere. Deborah però si sente diversa: vuole scappare da queste regole per vivere un'esistenza libera, accompagnata dalla musica e dallo studio.
"Ex ortodossa" racconta, infatti, il suo percorso alla ricerca della propria identità, lontana dalla famiglia d’origine e dalla sua comunità.
Ho comprato il libro subito dopo aver visto la miniserie “Unorthodox”, un adattamento del racconto: te la consiglio se non l’hai vista, la trovi su Netflix.
A cura di Elisa
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Grazie per averci lette fino a qui!
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Ti salutiamo con due canzoni
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Hai perso Spuma#5? Puoi leggerla qui
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